domenica 26 febbraio 2017

Il problema della cultura digitale

Per cominciare fatevi due risate:


Io però non partecipo alle vostre risate. Perché a me queste frasi fanno male. Le ho sentite quasi tutte. Quella che odio di più è: "Non va internet", che in realtà sottintende decine di problemi diversi. Io mi arrabbio, e quello che mi sento dire è che "però io queste cose non le so".
Lo so che non le sapete, e so anche che questo non il vostro campo. Però il computer o lo smartphone li usate lo stesso: è questo il problema. Che non dovrebbe essere un problema: avremmo diritto tutti ad usare queste meraviglie tecnologiche senza avere nessuna particolare conoscenza; purtroppo non è possibile.

Non è possibile perché a quegli strumenti affidiamo buona parte della nostra vita, ma sono pur sempre macchine: possono smettere di funzionare, e lasciarci improvvisamente in difficoltà.
Non è possibile perché quegli strumenti sono una finestra aperta verso noi stessi: e c'è chi fa di tutto per entrarvi per fare i suoi (spesso sporchi) interessi.
Non è possibile perché quegli strumenti ci mettono in contatto con praticamente tutto il mondo: e questo contatto può essere veicolo di comportamenti odiosi.

Quindi, per usare correttamente tutto quello che ci viene offerto nel mondo digitale, un minimo di cultura (parola che non uso a caso) la dobbiamo avere. Provo a farmi capire meglio con un esempio pratico: l'utilizzo della posta elettronica, poiché è uno strumento che in ambito professionale è forse il più critico, e in ambito privato è ancora abbastanza conosciuto, essendo stato uno dei primi strumenti digitali a vivere un boom.

Per moltissime persone, saper usare la posta elettronica si limita a saper inviare, leggere e inoltrare i messaggi, e (forse) gestire i contatti. Ma esse poi non conoscono i formati e le codifiche, non sanno gestire la propria casella e il proprio archivio, non sanno difendersi dalle mail trappola. Se volessimo paragonare la questione alla guida delle auto, è come se un po' tutti sapessero girare il volante e mettere la freccia, ma non sapessero parcheggiare, non conoscessero i segnali stradali e non avessero idea di chi ha la precedenza agli incroci. Infatti per guidare è obbligatorio seguire un corso e superare un esame; nel caso della posta elettronica, si sa quel poco che un amico ti ha raccontato e poi si è fatto da soli; però, quando vengono fuori i problemi, quell'amico non è in grado di aiutarti...

No, non è che propongo di istituire una "patente digitale" obbligatoria; ma di fare in modo che tutti posseggano un substrato culturale, su cui poi costruire consapevolmente le proprie esperienze digitali, sì!

Non è che attualmente nulla venga fatto: il problema è che viene lasciato alla buona volontà di pochi "eroi".
Esistono fondazioni, associazioni, professionisti che si dedicano all'alfabetizzazione ed educazione digitale: se vengono prese, in modo sistematico, iniziative in ambito scolastico, sia per i giovani che per i genitori (ed insegnanti!), già si raggiunge una buona percentuale, e forse la più importante, della popolazione.
In ambito professionale, le aziende dovrebbero farsi carico della formazione base per i lavoratori che utilizzano computer, smartphone e tablet, ovviamente non limitando la cosa a poche ore una tantum...
E perché non allargare il discorso anche ai pensionati, attraverso i centri anziani, le parrocchie, o tutti gli altri enti che in qualche modo se ne occupano.

Certo, tutto ciò non può avvenire senza spese: vale per le istituzioni, per le aziende, e per i cittadini. Il mio invito è che nella cosiddetta "Agenda Digitale" del Paese, di cui peraltro solamente si parla da anni, non ci si occupi soltanto di diffusione della banda larga, ma anche di come rendere i cittadini capaci di utilizzarla correttamente.

domenica 19 febbraio 2017

La stupidità artificiale

Una delle mie battute preferite è questa: "L'intelligenza artificiale è ancora molto lontana, è la stupidità artificiale ad essere avanzatissima!". È e rimane una battuta, ma ha dei fondamenti che vale la pena di raccontare.

Mio padre ha iniziato a lavorare coi computer negli anni '60, all'epoca delle schede forate; decenni dopo, quando iniziavo a prender confidenza col Commodore 64, mi disse una frase che non ho mai dimenticato ("I computer sono stupidi, fanno solo ciò che gli dici di fare") e che anni di studi e di lavoro non sono mai riusciti a mettere in discussione. Tutto ciò che oggi i nostri strumenti digitali fanno sono frutto delle conoscenze che l'Umanità è riuscito a costruirsi, e di chi riesce quotidianamente a tradurle nel linguaggio dei computer; i quali, così come i loro linguaggi, sono tutti frutto dell'intelligenza umana.
Tant'è vero che i sistemi digitali sono tutt'altro che perfetti: nel mio lavoro, ma anche nella vita privata, mi scontro ogni giorno con delle scelte implementative che non posso fare a meno di chiedermi come possano essere anche solo state pensate! In parte, come già espresso in altri post, possono derivare da interessi economici o personali, ma francamente ce ne sono molte che sono veri obbrobri... Ecco quindi la stupidità artificiale: tutto ciò che per pigrizia, malafede o incapacità ci rendono la vita più difficile di quanto non fosse possibile.

Veniamo invece all'intelligenza artificiale, argomento di cui oggi si fa un gran parlare anche perché è uno dei filoni di ricerca più attivi nel mondo informatico, con lo scopo di darci strumenti che facilitino sempre di più la nostra vita (accenno solo al fatto, anche questo già espresso in passato, che affidarci solo agli strumenti digitali ci impigrisce e ci rende più vulnerabili alla mancanza di essi).
Per farlo, iniziamo affidandoci ai dizionari. Cito (cioè copio) dal Dizionario De Mauro:
Intelligenza: facoltà della mente umana di intendere, pensare, giudicare, comunicare fatti e conoscenze, di formulare giudizi ed elaborare soluzioni in risposta agli stimoli esterni, di adattarsi all’ambiente o di modificarlo in base alle proprie necessità.
Intelligenza artificiale: insieme di studi e tecniche che tendono alla realizzazione di macchine, spec. calcolatori elettronici, in grado di risolvere problemi e di riprodurre attività proprie dell’intelligenza umana.
La parola chiave nella seconda definizione è riprodurre, che sottintende l'impossibilità di creare qualcosa di nuovo, ma solo di poter ricreare quanto di già esistente.
Un'altra definizione interessantissima è quella riportata all'inizio della pagina Wikipedia dedicata all'intelligenza artificiale (di cui consiglio la lettura):
L'intelligenza artificiale (o IA, dalle iniziali delle due parole, in italiano) è una disciplina appartenente all'informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.
Qui la parola chiave è sembrerebbero, che quindi non sono.

Uscendo dalla formalità, ricordo un film abbastanza divertente, il cui titolo italiano è "Corto Circuito", in cui un robot militare, per un incidente, diventa vivo, ma il suo progettista rifiuta di considerarlo tale finché diventa evidente, e questa evidenza è data dalla risata spontanea del robot ad una sua battuta. Ecco, a mio avviso, esiste un limite oltre il quale potremmo definire quella artificiale veramente intelligenza: non tanto la risata come nel film, ma, come accennavo prima, la creatività. Cioè il fatto che una macchina possa realmente arrivare a scoprire qualcosa che nessun uomo ha ancora scoperto. Ritengo che ciò sia possibile, nel futuro, ma anche quando ciò accadrà, ricordiamoci che quella macchina sarà stata comunque creata, in fondo, dall'intelligenza umana, e che il suo unico effetto sarà stato quello di aver sostituito un uomo che inevitabilmente sarebbe arrivato, prima o poi, allo stesso risultato.

Ricordiamocelo, quando nella pubblicità spacceranno per "intelligenti" degli strumenti che sono sicuramente dotati di memoria e velocità prodigiose, ma in fondo rimangono degli stupidi.