sabato 26 novembre 2016

L'alluvione ai tempi di internet

L'alluvione, almeno a Torino, non c'è stata. Ma in 17 anni che lavoro in questa città, ho vissuto questa situazione almeno 3 volte. Vi racconto come è evoluto il modo con cui l'ho affrontata.

Nel novembre del 2000 ero nuovo della città, e internet nelle case era agli albori dell'epoca del modem 56k. La Dora (Riparia) allagò diverse zone, anche a meno di un km da dove abitavo allora. A dare notizie c'erano solo radio e televisione. Morale: dopo 2 ore in macchina senza nemmeno riuscire ad avvicinarmi ad uno dei 2 (se non ricordo male) ponti percorribili, tornai a casa. La mia azienda riconobbe a tutti coloro, e furono tanti, che non riuscirono ad arrivare un giorno di permesso senza consumo di ferie.

Non molti anni fa (non ricordo esattamente, potrei dire 2011 ma non sono sicuro) si ebbe una situazione moto simile a quella odierna: allarme, ma niente esondazioni gravi. Ricordo che dall'ufficio controllavo sul sito dell'ARPA Piemonte il livello dei 2 fiumi che dovevo obbligatoriamente attraversare per tornare a casa (nel frattempo mi ero trasferito in seconda cintura); e il sito del comune comunicava in tempi abbastanza tempestivi lo stato della viabilità cittadina. Morale: non ebbi grossi problemi e riuscii sempre ad arrivare in tempi ragionevoli in ufficio e a tornare a casa.

Giovedì scorso, ampiamente annunciata, l'ondata di maltempo ha riproposto la stessa situazione: capire se c'erano problemi di viabilità causati dal livello dei fiumi. Rispetto agli altri anni, però, le fonti di informazioni sono esplose. A parte i siti, il veicolo principale dell'informazione sono i social network; in particolare Twitter ben si presta a questo scopo, obbligando alla sintesi e concretezza della notizia, ed offrendo una diffusione pressoché istantanea. Senza dimenticare che alle fonti istituzionali si possono affiancare anche i comuni cittadini, con le loro osservazioni dirette. Poi le informazioni in tempo reale del traffico direttamente sulle mappe: a colpo d'occhio ero in grado di sapere se e dove c'erano difficoltà. Ed infine, anche il meteo è disponibile in diretta. Personalmente faccio molto uso delle carte dei radar meteo, che danno con pochissimo ritardo (tra i 10 e i 20 minuti) lo stato, ma anche l'evoluzione, delle precipitazioni. Per farla breve, questa tempestiva disponibilità di informazioni  è un esempio lampante dei vantaggi e di un buon uso delle cosiddette nuove tecnologie.

Però. (C'è sempre un però...)

La voce stonata è rappresentata dall'utilizzo selvaggio degli hashtag: infatti, mentre cercavo di capire dalla sequenza dei tweet qual'era la situazione, in mezzo ai messaggi delle fonti istituzionali che avevano "lanciato" l'hashtag stesso, proprio allo scopo di raccogliere le notizie nel modo più semplice, si mischiavano messaggi inutili, nella migliore delle ipotesi, o proprio dannosi. Questi ultimi erano quelli che davano notizie allarmistiche, o poco precise, aggiungendo confusione ad una situazione che lo era di suo. Gli inutili erano quelli che non davano notizie, ma rappresentavano solo il proprio stato d'animo, o facevano riferimento ad aspetti molto secondari. Per carità, niente di tutto ciò è vietato; ciò che mi preme sottolineare è che anche l'utilizzo di un social network, in queste situazioni estreme, dove un messaggio letto o non letto può fare la differenza tra la vita e la morte di qualcuno, va fatto con il buon senso. Basta evitare di utilizzare gli hashtag dedicati alla diffusione delle informazioni, ed usarne altri, magari più generici. Ed ovviamente evitare di diffondere notizie non confermate o addirittura false.

sabato 19 novembre 2016

L'utilizzo consapevole degli strumenti digitali

Ricordo ancora quando entrai nel laboratorio dove avrei scritto la tesi di laurea, una stanza con qualche computer, che avevano la particolarità di avere un cavo coassiale che, attraverso dei connettori a T, passava da uno all'altro: mi spiegarono che era il collegamento di rete, al che io feci la domanda del secolo: "a che c**** serve mettere i computer in rete???". Era l'epoca in cui i computer erano roba da appassionati smanettoni, internet un nuovo giocattolo su cui il massimo dell'eccitazione era rappresentata dalle foto di Marte del primo rover americano, e i primi telefonini grossi come un libro arrivavano sul mercato (ma "non c'era campo"). La rivoluzione l'abbiamo vissuta senza nemmeno accorgercene, ed ora chiunque ha in mano un potentissimo computer miniaturizzato (che accidentalmente telefona pure), perennemente connesso senza fili ad internet, grazie alla quale siamo immersi in un mondo di informazione in tempo reale. Dove ci porterà il futuro, io non lo so, ma certamente la rivoluzione non è finita qui.

A dirla così, sembra fantastico, e senza dubbio lo è; ma vivendo la vita sia professionale che privata dal lato di "quelli che ne capiscono", la situazione non è così rosea. Questa rivoluzione è stata talmente veloce, e soprattutto guidata da interessi economici giganteschi, che ci siamo ritrovati in mano gli strumenti digitali senza preparazione. Il più grande cruccio con cui mi confronto tutti i giorni è che vedo, nella stragrande maggioranza dei casi, una mancanza di consapevolezza dei rischi che si possono incontrare nell'universo digitale. Tali rischi sono, a mio parere, di due grandi categorie: il primo è il trasferimento di nostre funzioni fondamentali (in primis: la memoria) a degli strumenti che, contrariamente a quanto ci fanno credere, non sono assolutamente infallibili; il secondo è rappresentato dagli utilizzi a scopo criminale, che in questo caso sono aggravati dal fatto che il mondo di internet è una sorta di terra di nessuno, in cui nascondersi è facilissimo.
Difendersi da questi rischi è possibile per ognuno di noi, anche senza preparazione specifica, a patto di possedere un substrato culturale in tema di informatica. Per intenderci meglio, faccio un paragone: la patente per la macchina. Spero nessuno pensi che essa sia solo una forma di estorsione voluta dei lobbisti delle scuole guida... poiché sulle strade si muore, è indispensabile che chi guida abbia una preparazione basilare, fatta sia di teoria che di pratica! E la dimostrazione che questa preparazione sia indispensabile è data proprio dal fatto che anche a chi non ce l'ha (ancora), si cerca di fornirla sotto forma di quella che si chiama "educazione stradale", perché anche chi non guida un'auto, ma si limita ad andare a piedi o in bicicletta, è parte del mondo stradale. Tutto ciò senza obbligare nessuno a prendere una laurea in ingegneria meccanica!

A pare casi estremi, con l'informatica non si muore. Ma si possono perdere soldi, oppure informazioni, che in certi casi hanno più valore del vile denaro. Inoltre, la cronaca recente ha raccontato diversi casi di quella che definirei perdita di dignità o di rispetto. Anche in questo caso, la parola chiave è prevenzione (perché "noi che ne capiamo" non possiamo far nulla se a monte sono state fatte scelte sbagliate), che è parente strettissima della consapevolezza, che a sua volta dipende dalla cultura.
Per le nuove generazioni, il compito di passare questa cultura è delle istituzioni educative (famiglia, scuola, associazioni); ma prima, ovviamente, devono essere le famiglie e gli educatori a dotarsi a loro volta di quello che prima ho chiamato substrato culturale. Se ciò non accade, il mio (personalissimo!) parere di esperto del campo è che gli strumenti digitali si trasformino in un boomerang e che siano di ostacolo, invece che di ausilio, al benessere comune.

sabato 12 novembre 2016

Potere ai piccoli

Mercoledi scorso, durante le immancabili analisi post-voto delle elezioni presidenziali americane, c'è stata una dichiarazione che mi ha colpito in particolare: un giornalista del New York Times commentava le errate previsioni dei giornali (incluso il suo) e dei sondaggi affermando che "i giornali non hanno più il potere di una volta". Quale potere? Mi sembra abbastanza intuitivo che si riferisse al potere di influenzare l'opinione delle persone.
Preferisco tralasciare la questione sul perché i giornali dovrebbero avere questo potere... e concentrarmi invece sulla riflessione che mi è venuta spontanea, ovvero: chi ha preso ora questo potere? Questa che segue è la risposta che mi sono dato.

I giornali (cartacei, o televisivi) hanno avuto il potere di cui sopra finché hanno rappresentato il monopolio del mondo dell'informazione, pur con i loro distinguo dovuti alle differenti linee editoriali, ancorché troppo spesso espressione degli interessi dell'editore. Questo monopolio è stato perso con l'avvento di Internet, la cui grande rivoluzione è rappresentata dall'aver dato voce a chiunque sia connesso. Oggi chiunque può dire la sua, e i metodi non mancano: la fanno da padroni i social network, ma non dimentichiamo i blog o più semplicemente i commenti che si possono mettere alle notizie. Risultato: oggi i fautori delle diverse posizioni si possono contare più facilmente, e coloro che non la pensano come quella che una volta si chiamava l' "intellighenzia" possono rapidamente scoprire che molti la pensano come loro, e questo inevitabilmente dà il coraggio di andare "controcorrente". In una parola: Democrazia (notare la D maiuscola, necessaria per distinguere il significato rispetto a quello che gli diamo comunemente...).

Fin qua tutto bene, direte voi; sicuramente bene, ma sul tutto... siamo proprio sicuri? Già, perché questo ragionamento vale per tutte le opinioni: anche quelle che ognuno di noi considera scellerate. Probabilmente ognuno di noi vive un continuo alternarsi di sollievo nello scoprire che c'è tanta gente di buon senso, e di sconforto nello scoprire che c'è tanta gente che sembra indegna di poter far parte di una qualsivoglia società! Ma al di là di fare inutile filosofia, ciò che dobbiamo tenere sempre a mente è che ormai anche noi, nel nostro piccolo, possiamo avere potere ed influenza, e che li esercitiamo ogni giorno per il solo nostro essere "on-line". Probabilmente abbiamo mille motivazioni per reagire "di pancia" a ciò che vediamo nel mondo intorno a noi, il problema è che questa reazione, se espressa nel "pubblico" di Internet invece che nel "privato", può essere facilmente fraintesa e reinterpretata a piacimento soprattutto da chi non ci conosce veramente. Nei casi più eclatanti (potrei citare Brexit, oltre alle elezioni USA), i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

sabato 5 novembre 2016

L'insostenibile leggerezza della nuvola

Lo scorso 29 ottobre a Roma veniva inaugurata La nuvola, l'avveniristico centro congressi progettato dall'architetto Fuksas. L'idea, indubbiamente interessante, era quella di avere una struttura non solo dalla forma di una nuvola, ma anche che desse l'impressione della leggerezza, o meglio dell'impalbabilità. Ma l'idea si è dovuta scontrare con la dura realtà: non so se sia vero, come avevo sentito dire anni fa, che il progetto sia stato ritardato perché all'epoca non esistevano le tecnologie costruttive necessarie (per fortuna, la tecnica avanza), certamente i 3 pilastri  e l'abominevole struttura di vetro e acciaio che la racchiude, hanno ben poco di leggero ed impalbabile.


Che c'azzecca, vi chiederete (e non sarà l'ultima volta): c'entra, perché anche nell'ambito della nostra quotidiana esperienza degli strumenti elettronici, abbiamo a che fare con la nuvola, o meglio il cloud. Con questo termine si intendono tutti quei dati e servizi che non risiedono sui nostri computer (o tabler, o smartphone), ma semplicemente si accedono attraverso la connessione internet, senza che dobbiamo preoccuparci di nulla, e quindi, nella nostra esperienza, possono dare l'idea dell'impalpabilità.  
Ma anche in questo caso la realtà è ben diversa. "Il cloud è quando i vostri dati sono sul computer di qualcun'altro", ho letto una volta, sublime sintesi della questione. Perché anche il cloud è in realtà tutt'altro che impalbabile, ed è al contrario assolutamente concreto. E per capire com'è fatto, approfitto di questo bellissimo articolo: PI Guide / Cloud Storage fatto in casa (roba da nerd duri e puri, ma di cui tutti dovrebbero leggere le prime righe) da cui estraggo questa foto:


Ecco, il cloud nella realtà è: disco, processore, RAM, sistema operativo, e una connessione di rete. Se la rete è quella di casa vostra, il cloud è privato; se scegliete che sia accessibile da fuori casa vostra, attraverso la connessione internet, diventa pubblico (non nel senso che chiunque lo possa usare: nel senso che è accessibile da ovunque nel mondo). I servizi che tutti usiamo, di cui accennavo prima, e che chiamiamo cloud, sono fatti esattamente nello stesso modo, scalato per decine, centinaia di migliaia di volte, e dedicato all'uso di milioni di persone. E di cui non avete il controllo.