sabato 29 giugno 2019

Guerre virtuali, attacchi reali

La notizia è passata sui giornali quasi come fosse solo una curiosità: Trump ferma i bombardieri  diretti in Iran e invece ordina l'attacco cybernetico. Pieno successo, dicono gli americani; nessun danno, dicono gli iraniani: certo, il campo di battaglia è virtuale, come possiamo noi sapere veramente cos'è successo? Oltretutto le infrastrutture attaccate erano militari, quindi il segreto è d'obbligo. Comunque nessuno si è fatto male e siamo tutti contenti.

Resta il fatto che la guerra digitale, forse per la prima volta, è stata preferita a quella tradizionale. Buona notizia, senz'altro: ma non così buona come potrebbe sembrare ai meno attenti. Bene ha fatto il Generale Rapetto a rimarcarlo immediatamente.

Analizziamo la situazione. La guerra totale (cioè quella che coinvolge la popolazione civile per fiaccare la volontà di resistenza di una nazione o popolo) ha raggiunto il suo massimo nella seconda guerra mondiale, ma non è certo una novità del secolo scorso. Strategicamente parlando, per costringere una nazione alla resa devi fiaccarla economicamente (distruggendo le industrie e la produzione alimentare) e socialmente (attraverso sofferenze così atroci da rendere preferibile qualsiasi altra cosa, incluse le condizioni imposte per la resa). Gli strumenti sono stati per secoli bombardamenti, violenze, fame,  distruzioni indiscriminate.

Il problema è che ora gli stessi scopi possono essere raggiunti attraverso strumenti virtuali che però hanno conseguenze estremamente reali: semplicemente perché ormai tutta l'economia e la società si è digitalizzata. Non ci credete? Qualche esempio, ispirato da episodi reali.

Industrie, ospedali, trasporti bloccati per giorni da un virus (informatico, s'intende).
Sistemi di controllo di impianti idraulici accessibili via internet (pensate a cosa succederebbe aprendo completamente, all'improvviso, le chiuse di una diga).
Conti correnti e risparmi spariti cancellando i database delle banche.
Grandi flussi di notizie fasulle e contraddittorie sui social ma anche sui giornali "ufficiali".
Blackout energetico indotto da attacchi "denial of service".
Esami diagnostici modificati o cancellati.

Finché tutto ciò è episodio singolo e sporadico causato da un gruppetto di hacker, poco male (si fa per dire); ma se invece una nazione attaccasse deliberatamente un'altra con azioni coordinate e simultanee effettuate da esperti? L'effetto potrebbe essere che una mattina ci troviamo senza luce, gas, telefonia, coi campi agricoli allagati, i trasporti bloccati, impossibilitati a pagare nei supermercati (ammesso che siano aperti), soccorsi impantanati nella mancanza di comunicazioni, tutti senza sapere cosa sta succedendo ed in balia delle voci che girano incontrollate. Una situazione in cui i morti non li troveresti tutti insieme sotto le macerie dei bombardamenti; li troveresti nelle strade, a poco a poco, mano mano che il caos ed il panico si espande.

Fantascienza? Trama di film catastrofici? Pensare che quello appena descritto sia uno scenario impossibile è semplicemente da criminali (o stupidi, se preferite), tanto è vero che l'Unione Europea ha varato una Direttiva (la 2016/1148, detta "NIS") che impone agli stati membri di individuare i gestori di infrastrutture critiche, che a loro volta, sulla base del loro livello di criticità, devono dotarsi di misure di sicurezza (sia tecniche che organizzative) contro gli attacchi informatici. Anche la vicenda Huawei può essere presa ad esempio (anche se in questo caso credo prevalgano gli aspetti economici): se gli USA basassero le loro infrastrutture critiche su dispositivi fabbricati in Cina, si esporrebbero all'enorme rischio di subire attacchi del genere appena descritto che vengono veicolati in modo nascosto proprio attraverso quei dispositivi.

L'era dei bunker antinucleari è finita da un pezzo: inizia ora quella della cybersecurity.