mercoledì 28 febbraio 2018

Lo nero periglio che vien dal web: i pirati informatici!

L'avete capito il titolo? No? Male, malissimo! Fà il verso a un episodio di uno dei capolavori assoluti della commedia italiana, L'armata Brancaleone (di Mario Monicelli, 1966), nell'originale "lo nero periglio" veniva dal mare e non dal web, ed erano i pirati saraceni (saracini, nel film). Tutto questo per introdurre il tema del post, ossia il pirata informatico, e più precisamente l'uso della parola con cui viene comunemente indicato, ossia hacker.

Quando l'informatica era roba rinchiusa nelle università o in qualche azienda agli albori dell'innovazione digitale, il significato di Hacker era ben diverso da quello che poi la prassi (sbagliata!) gli ha affibbiato. Esso non era il pirata informatico, ma colui che, grazie ad una conoscenza estremamente approfondita delle tematiche digitali, era in grado di inventarsi nuove tecnologie o utilizzi di quelle esistenti. La connotazione del termine era assolutamente positiva, mentre il pirata informatico aveva un nome diverso, cracker, ossia colui che "rompe" (crack), cioè danneggia, i sistemi informatici. In realtà, i due termini si differenziavano non tanto per le capacità tecniche, che possiamo considerare identiche, ma per lo scopo per cui venivano utilizzate: creare innovazione, nel caso di hacker, contro delinquere, nel caso di cracker. Per certi versi, entrambi i generi hanno portato il loro contributo alla rivoluzione digitale di inizio millennio, perché combattere i cracker ha profondamente sviluppato il concetto di sicurezza informatica. Volendo portare un esempio di hacker secondo questa accezione "antica", non posso che citare Linus Torvalds, ossia colui che, insoddisfatto dei sistemi operativi proprietari della galassia Unix, nonché dei primi tentativi di creare degli Unix gratuiti in campo didattico, creò Linux, che oggi è il sistema operativo più famoso ed utilizzato al mondo.

Come si diceva all'inizio, oramai il termine hacker ha assunto valenza negativa, tant'è vero che è stata coniata una terminologia diversa per designare gli hacker "buoni": gli ethical hacker, ossia gli hacker che hanno motivazioni etiche. Letteralmente, almeno secondo l'accezione correntemente in uso, gli ethical hacker sono coloro che vanno alla caccia di vulnerabilità dei sistemi informatici e che, invece di sfruttarle a loro esclusivo vantaggio (questi sono gli hacker "normali", cioè cattivi), le rivelano direttamente e solo alle aziende produttrici (nel caso dell'hardware) o sviluppatrici (nel caso di software) perché vengano corrette. In qualche caso ci guadagnano qualche soldino, perché le aziende pagano ricompense a chi scova queste vulnerabilità (evidentemente gli costa meno di un efficiente sistema di qualità interna...), ma per lo più ciò che guadagnano è la fama che poi si trasforma in un lavoro strapagato. Eh sì, perché gli hacker (quelli veramente bravi) sono pochi, e per combattere un hacker, ci vuole un hacker (non si contano quelli che hanno saltato la barricata, cioè che dopo essersi guadagnati la fama a suon di attacchi ben riusciti, sono stati assunti da aziende che si occupano di sicurezza).

In realtà, gli hacker "buoni" (o quanto meno, non cattivi) possono annoverare un paio di altre categorie, sempre legate allo scopo delle loro azioni, piuttosto che alle loro capacità. C'è chi usa queste capacità per motivi politici, tipicamente cercando di svelare ciò che i governi (tutti, democratici e non) cercano di tenere segreto; il caso forse più famoso è Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Altri, al contrario, sono utilizzati proprio dalle agenzie governative per scopi di spionaggio o controspionaggio (tipo le presunte ingerenze russe nelle ultime elezioni presidenziali americane).

Nessun commento:

Posta un commento